Guerra. Paradigma del patriarcato


DISCLAIMER
Questo intervento è stato tenuto l’10 febbraio 2023 nel contesto del convegno ‘Il Futuro Imprevisto. Genere, sessualità, politiche’. Il convegno, durato dal 9 all’11 febbraio e tenutosi all’Università di Genova, è stato organizzato da GIFTS – Rete di studi di Genere, Intersex, Femministi, Transfemministi e sulla Sessualità, Scuola di Scienze Sociali UniGe, About Gender – International Journal of Gender Studies e il Comitato per le pari opportunità Università di Genova.
L’intervento doveva avere una durata massima di 7 minuti, ma il documento che segue è leggermente più lungo. Con lo scopo accademico di questo discorso voglio sostenere personalmente la proposta femminista, nonviolenta e antimilitarista. La violenza può far parte della vita, ma la violenza organizzata è un progetto, un business e una strategia all’opposto di tutto ciò che è pace, collaborazione, convivenza, comunicazione. Mi permetto di ricordare che questi tre elementi sopra elencati – femminismo, nonviolenza e antimilitarismo – non sono attivismo casuale di persone che non hanno niente di meglio da fare che bloccare le strade, ma teorie e campi di studi che dovrebbero essere criticati dopo una seria messa a fuoco.

ABSTRACT
Il mio intervento si concentrerà sul contesto culturale e sociale dei paesi NATO, e farà riferimento all’era della Guerra al Terrore, inaugurata nel 2001 da George W. Bush dopo gli eventi del World Trade Centre. Quando parlo di guerra mi limito ad alcuni aspetti che mi sembrano essere quelli più essenziali di questa espressione di violenza organizzata. Anzitutto, con ‘guerra’ intendo solo i conflitti tra stati che sfociano in violenza – non è importante che siano legalmente definibili guerre, come succede con il conflitto in Ucraina. Gli aspetti fondamentali che prendo in considerazione sono il conflitto armato e la propaganda contro il nemico (e quindi la sua definizione), e accennare alla militarizzazione della polizia. L’aspetto su cui voglio concentrarmi non è tanto legato agli stupri in guerra, quanto quello del prendere la guerra come paradigma delle relazioni umane, indipendentemente da se ci si trova davanti a un nemico politico in un contesto bellico o davanti a una persona in una situazione quotidiana che non ha nulla di conflittuale. Il mio discorso non si concentrerà su problemi di cui risentono solo le minoranze, le persone LGBT+ e le donne, ma di cui queste categorie ne risentono maggiormente; perché voglio sostenere che il femminismo non sia un mero sostituire gli uomini con le donne, ma la sperimentazione di nuove mentalità diverse e conviventi in cui non si creano le basi per le cosiddette war-mentalities. Con il mio intervento intendo sottolineare che con certe rappresentazioni del conflitto armato proprie di una mentalità patriarcale il rischio è quello di proporre un modello di relazione intrinsecamente violento e conflittuale. 

Introduzione 
Quello di cui andrò a parlare tra brevissimo non è il centro della mia ricerca. Io studio war-mentalities in generale, quindi come si applica un atteggiamento proprio di un contesto bellico in contesti quotidiani, che non hanno a che fare con la guerra1, il conflitto armato e la violenza organizzata, almeno direttamente. Da femminista tuttavia mi rendo conto che almeno questa guerra contemporanea che di cui mi occupo è immersa in un sistema culturale patriarcale, e penso che questo aspetto sia fondamentale per comprendere le dinamiche della mia ricerca di dottorato. I miei studi sul tema delle war-mentalities hanno preso le mosse dal campo filosofico-estetico. Nella mia tesi magistrale parlo nella prima parte delle immagini riprese da siti istituzionali di alcuni eserciti NATO (nello specifico: italiano, statunitense, francese e tedesco) e nella seconda di film statunitensi, di produzione hollywoodiana, che hanno fatto notevoli incassi, quali American Sniper, Iron Man e Top Gun: Maverick. Possiamo dire che per ora, durante il primo semestre del dottorato e nella tesi magistrale, mi sono chiesta: tutte queste narrazioni sulla guerra, potrebbero influenzare il modo in cui ci2 relazioniamo con gli altri esseri viventi e con gli eventi della vita? 

Posizione del problema
Chi ha visto la serie di Zerocalcare su Netflix ricorderà sicuramente la scena in cui l’armadillo, spiegandogli come deve relazionarsi con Alice, usa la metafora della guerra di posizione. È proprio su questa presenza “indiretta”, o meglio, presenza culturale della guerra che voglio concentrarmi. In quello che ho studiato e notato finora mi è sembrato che non tanto le notizie quanto le narrazioni della violenza organizzata e del conflitto armato siano quelle che maggiormente bisogna prendere in considerazione quando si denunciano le war-mentalities. Le ragioni sono diverse. Anzitutto perché noi non vediamo la vera guerra: le immagini semplicemente non ci arrivano. Ci sono alcuni account su Instagram che mostrano video di conflitti armati in atto, ma bisogna seguire l’account, trovare il video, e comunque convincere l’algoritmo che si ha interesse a quel genere di contenuti. Inoltre, e questo aspetto è fondamentale e racchiude anche il primo che ho appena enunciato, le immagini che ci giungono con i telegiornali3 sono sfocate, filtrate, censurate, confuse, ci sentiamo fuori da quelle immagini, sono immagini rapide, prive di pathos e contesto. Per dirla con le parole di Pietro Montani che commenta le testimonianze arrivate in Italia della strage di Beslan (2004):

L’impressione è che, di fronte all’enormità di quell’orrore, chi lo stava documentando fosse stato assalito, non sempre, certo, ma con una frequenza significativa, dall’insorgenza di una sensibilità del tutto eccezionale, starei per dire anomala, per la forma che sarebbe stato necessario conferire a quel documento. Accadde così che quelle corse affannose dei soccorritori con i bambini straziati tra le braccia fossero spesso presentate al rallentatore. Talvolta accompagnate da una colonna sonora che qualcuno dovette trovare appropriata. Come se quelle immagini fossero al contempo da distanziare e da confermare. Come se la loro capacità di testimoniare la realtà dei fatti fosse al tempo stesso così eccessiva e così precaria da richiedere la cura di una presentazione particolare. Non voglio discutere qui di quelle scelte formali. Non mi interessa la loro povertà. La loro convenzionalità. Mi interessa il fatto che si sforzassero di rispondere, certo inadeguatamente – e come, altrimenti? –, a una confusa esigenza testimoniale. E che quell’esigenza si convertisse nella decisione, altrettanto confusa, altrettanto indigente, o addirittura fuori luogo e stonata, di fare appello a una mediazione estetica.4

Le notizie sono difficili da interpretare, sono numeri e immagini sconnesse. In una realtà in cui l’immagine, l’estetica, ha un ruolo così importante, non creare un’immagine cattura ben poco empatie e attenzioni. È qui che nasce la prima difficoltà, almeno in termini di espressione. Perché se da una parte noi consumatorə occidentalə non vediamo la vera guerra perché le immagini che ci arrivano sono insoddisfacenti, dall’altra quando la vediamo non siamo in grado di riconoscerla, perché siamo costantemente ingozzatə da una narrazione della guerra filmica, tragica, piena di pathos, e in questo senso anche patologica, perché senza questa metodologia di rappresentazione non siamo in grado di cogliere il contesto bellico. Dov’è il problema di questo? I problemi che nascono qua sono tanti e gravi, ma quello che interessa a me è la metodologia di rappresentazione.
Noi siamo immersə in una società profondamente patriarcale e la violenza organizzata e il conflitto armato contemporanei sono stati sviluppati in questa realtà da persone che non la mettevano in dubbio o in discussione, perché la applicavano alla loro ricerca, sebbene eserciti e ricercatorə cerchino di promuovere le armi come strumenti di pace. Si può fare lo stesso discorso (comunque generalizzando notevolmente) per l’industria del cinema. Sembra quindi che il conflitto armato e la violenza organizzata siano delle applicazioni, estreme e quindi emblematiche, dei valori e dei comportamenti che il patriarcato promuove e difende.

Conclusione
In questo senso la guerra no, non è paradigma del patriarcato, ma può essere definita come l’esempio che il patriarcato prende per farsi splendido. Tuttavia, se prendiamo il patriarcato e la guerra come la realtà attuale, e il femminismo e l’antiviolenza come le rispettive migliori risposte (migliori perché l’ho deciso io, non voglio implicare nulla di oggettivo), come un pensare diverso e diversamente la guerra, ci aiuta a comprendere quali sono gli strumenti che la società patriarcale costruisce per rafforzarsi: il vedere tutto nei termini di un conflitto e una competizione. Mi sembra di aver capito che il femminismo proponga delle alternative molto interessanti alla mentalità competitiva che, non dimentichiamoci, ha portato molta gente a uccidere e suicidarsi. Mi sembra anche che guerra e patriarcato si prestino idee a vicenda: il patriarcato approva e finanzia e sostiene tutto l’apparato bellico, e la guerra in cambio restituisce un metodo di comportamento, una mentalità, che viene messa in pratica dalle comunità e dallo stato stesso, ad esempio, con la militarizzazione della polizia.
Vorrei riportare un esempio di come questa mentalità sia anche un circolo vizioso, di come la violenza porti violenza. Pensiamo agli scontri alla Sapienza di Roma alla fine di ottobre 2022. Tantə hanno detto che gli scontri sono iniziati perché una ragazza ha sputato verso la polizia, inquadrata e in tenuta antisommossa, e che i poliziotti abbiamo caricato – implicando che la colpa fosse dei manifestantə e non della polizia. Insomma, se si dà ai poliziotti un manganello, uno spray al peperoncino, la pistola, lo scudo e il casco, lo sconto è un risultato assicurato tanto quanto cercato. Quello che voglio sottolineare è che si dà per scontato che sia normale che si investono più soldi in armi e divise antisommossa invece che in corsi per sviluppare strategie di dialogo per la gestione di situazioni difficili. 

Notes

1.  Il mio sguardo sulla guerra è in realtà uno sguardo su una sola parte di essa, ovvero, appunto, il conflitto armato. Non mi occupo e non voglio fare assunzioni su altri metodi di ingaggio del conflitto come la cyber guerra o la guerra economica come gli embarghi e i blocchi navali, etc.

2.  Mi scuso se questo possa sembrare discriminante, ma per ragioni di accuratezza sono costrettə a intendere nel “noi” solo cittadinə occidentalə bianchə. Nella tesi magistrale ho deciso di utilizzare il termine “consumatorə” invece di “spettatorə” più comune nell’estetica. La scelta è dovuta a un tentativo di ricordare l’importanza economica di questo ruolo e allo stesso tempo per richiamare le note di Benjamin sul cinema e sullə spettatorə ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

3.  Preferisco riferirmi alla televisione piuttosto che ai social perché sebbene sui secondi ci sia molto più materiale l’algoritmo è un grosso filtro, e anche con account che esprimono forte interesse in certe immagini e notizie quello che si tende a vedere sono altri tipi di video su cui si è espresso interesse.

4.  Montani, P. L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile. Milano, Meltemi, 2022, pp. 23-24.

Photo Credits: globalvoices.org